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Editoriali

Da ormai quindici giorni assistiamo ad una pressione mediatica sui servizi di emergenza sanitaria che non ha precedenti. Il tutto è partito da alcune foto choc, realizzate dagli operatori dell’Ospedale San Camillo di Roma mentre praticavano un massaggio cardiaco, su un materasso poggiato sul pavimento, ad una signora arrivata al Pronto soccorso in arresto cardiocircolatorio e poi, per fortuna, salvata e ricoverata nell’UTIC di quell’ospedale. Nei giorni seguenti si è intensificata la pressione con la vicenda ormai nota della signora malata di alzhemeir, legata ad una barella da tre giorni al Pronto soccorso del Policlinico Umberto I di Roma.

 

 

A noi di Cittadinanzattiva – Tribunale per i diritti del malato che stiamo tutti i giorni a contatto con queste situazioni, queste notizie non hanno meravigliato più di tanto sebbene continuino ad indignarci. Piuttosto abbiamo cercato di contribuire ad individuare soluzioni che possano tener conto sia delle condizioni in cui le persone sono costrette a vivere questi momenti, sia degli operatori che spesso lavorano in condizioni inaccettabili.

Le criticità  principali dei servizi di emergenza-urgenza romani non sono in realtà né i codici bianchi, cioè i pazienti meno gravi, né, almeno in buona parte di  Roma, la mancanza di letti per acuti! Il problema è che il Pronto Soccorso in particolare e l’Ospedale più in generale, rappresentano spesso l’unica risposta disponibile e su questi si scaricano situazioni che potrebbero trovare risposte molto meno costose e più adeguate.

Al S. Camillo il 17% delle persone che si reca presso il pronto soccorso viene ricoverato in un reparto di degenza, il restante 83% riceve cure attraverso visite specialistiche e/o esami diagnostici e viene poi rimandato a casa.

L’immagine delle Ambulanze bloccate,  dei pazienti che aspettano per giorni un letto stesi su una barella o in poltrona, trasformando il Pronto Soccorso in anomali spazi di degenza dove si mangia, si dorme e si viene curati in assenza totale di ogni forma di privacy e di comfort, che sarebbe invece dovuto a chi sta male, rappresentano qualcosa di inaccettabile che offende i cittadini del Lazio  ed in primo luogo proprio quanti nel nostro sistema sanitario regionale mettono impegno e dedizione.

Non si è lontani dal vero quando si dice che oggi  almeno il 20% di quanti sono ricoverati sui costosissimi letti delle Rianimazioni potrebbero giovarsi di modalità di assistenza non solo meno costose, ma anche più adeguate alle loro necessità. E nei reparti di Medicina una percentuale ancora più elevata di pazienti è ricoverata più per difficoltà legate alle condizioni sociali, come povertà e solitudine, che a quelle di salute.
I partiti dei diversi schieramenti hanno risposto, come capita spesso, in modo sguaiato, rinfacciandosi colpe e facendo risalire le responsabilità sull’amministrazione di prima o su quella ancora precedente secondo la parte politica di chi parla. La situazione dei Pronto Soccorso era stata denunciata da anni, a partire dall’ospedale S. Giovanni nel 2008, ma forze politiche e istituzioni l’hanno affrontata  con superficialità e senza risolvere nulla.

Dal 2007 andiamo ripetendo che deve essere garantito il “principio della contestualità”.  Nel momento in cui si chiudono servizi, contestualmente vanno fornite ai cittadini alternative a quel servizio che non sarà più disponibile. Abbiamo assistito invece a chiusure e ridimensionamenti di servizi senza altre opzioni.
Allora, quel che serve è qualcosa che la programmazione regionale prevede e che ancora non è stato realizzato, e cioè strutture idonee a soggetti fragili, in cui sia garantita assistenza anche sanitaria, ma non con l’intensità, i costi e  le caratteristiche tipiche dell’Ospedale per acuti. Quel che serve è che si realizzi l’ apertura di 2000 letti di RSA prevista e mai realizzata.

Insieme a questo c’è bisogno della diffusione di buone pratiche, come quella presente a Roma in Piazza Istria nella Asl RM A, dove 55 medici di base si sono organizzati e forniscono un servizio di eccellenza. Dal lunedì al venerdì dalle 8 alle 20 è un normale studio medico ma nel fine settimana e in tutti i giorni festivi diventa un piccolo pronto soccorso con medici e infermieri.  In un anno sono stati effettuati 6.000 codici bianchi. Il costo annuale è di 140.000 euro. Estenderlo a 4 distretti per ognuna  delle altre 7 asl della provincia di Roma costerebbe 4 milioni di euro, cioè 1,35 euro a cittadino. Praticamente niente. Se pensiamo che solo un codice verde in ospedale costa almeno 200 euro capite quanto si possa risparmiare.

Sulla situazione attuale hanno pesato spesso scelte prive di senso, i riflettori sono ora accesi sugli  ospedali romani. Può essere un momento favorevole per riprogrammare il servizio sanitario a partire dalle esigenze dei cittadini? Il Tribunale per i diritti del Malato continua a fare la sua parte nell’ordinarietà, spesso senza clamore mediatico, tentando sempre di rappresentare nei fatti e con intelligenza la “spina nel fianco”  che contribuisca a mantenere in vita il tema dell’universalità dei diritti e del sistema di welfare solidale.

Giuseppe Scaramuzza, Segretario regionale Cittadinanzattiva Lazio

Redazione Online

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