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Editoriali

punto_29_10_09 "Una catastrofe annunciata", è il titolo con il quale i giornali ci parlano piuttosto frequentemente delle calamità naturali che colpiscono il nostro Paese: quest'anno è accaduto per il terremoto dell'Aquila e l'alluvione di Messina, come per i vari incidenti ferroviari, crolli di edifici e altri drammi causati dalla mancata o insufficiente attuazione delle norme di sicurezza.

Eppure è sotto l'occhio di tutti quello che è stato realizzato a partire dalla tragedia dell'Irpinia: il nostro paese si è dotato di un sistema di protezione civile che, con tutti i propri limiti, ha pochi rivali al mondo, ha identificato e precisato i pericoli determinati dalla fragilità idrogeologica e dalla sismicità naturali del nostro territorio, ha prodotto un impianto normativo di valore e, in generale, importanti competenze tecniche. Un ruolo rilevante in questo percorso è stato svolto dai cittadini che hanno imparato a riconoscere e segnalare situazioni di rischio: penso alle attività che abbiamo promosso come Cittadinanzattiva, dal censimento popolare dei rischi del 1986 ad Ospedale sicuro ed Imparare sicuri, e soprattutto alla miriade di comitati locali che sorvegliano il proprio territorio. Il volontariato ha messo a disposizione risorse strategiche per gli interventi nelle emergenze; la magistratura, dal canto suo, ha mantenuto alta l'attenzione verso l'applicazione delle norme. Eppure resta la sensazione di una assenza di governo. Da qualche tempo si sente evocare la possibilità di allentare gli impegni sulla sicurezza perché "costano troppo" in un momento di crisi; il Ministro dell'Ambiente dichiara di non avere più fondi, in generale i tagli di spesa si scaricano spesso sulle manutenzioni, i conflitti di competenza restano irrisolti. Per uscire dallo stallo le strade obbligate sembrano sostanzialmente due, ed entrambe comportano, come accaduto in passato, la valorizzazione della cittadinanza attiva.

La prima strada riguarda la necessità di passare dalla semplice messa a norma alla pianificazione della sicurezza dei territori, degli edifici pubblici (soprattutto scuole e ospedali), dei trasporti e degli impianti produttivi. Si tratta, con tutta evidenza, di processi diversi che, però, presentano problemi comuni: una definizione incerta dei regimi di governo e di responsabilità, la cronica insufficienza delle risorse disponibili, un'applicazione delle norme condizionata molto più dai poteri dei diversi organi di controllo che da priorità tecnicamente verificate.

La formazione e l'attuazione di Piani generali di messa in sicurezza potrebbe risolvere positivamente questi problemi. Usando il paradigma della legge sulla sicurezza sul lavoro (ex 626/96), per fare un piano bisogna: identificare e valutare i rischi presenti, individuare le misure di eliminazione o di contenimento del rischio, quantificare le risorse finanziarie necessarie, trovare le risorse e formulare un programma temporale di attuazione delle misure. Detto così sembra semplice, ma il divario fra la situazione in atto e quella disegnata dalle norme, in realtà è enorme e impone di decidere che cosa si può realisticamente fare, che cosa conviene fare prima e cosa dopo e definire una tempistica degli interventi. Perché ciò possa avvenire in termini credibili occorre che la valutazione sia fatta in termini oggettivi e verificabili, attraverso un confronto aperto e trasparente con la cittadinanza utilizzando le forme della democrazia deliberativa ampiamente collaudate in tutto il mondo. Anche la formulazione degli ordini di priorità, dovrebbe essere accompagnata dalla consultazione dei cittadini e concordata con i soggetti che metteranno a disposizione le risorse ed eserciteranno l'attività di controllo. Dopo l'approvazione, il piano dovrebbe valere per tutti ed è qui la novità: in pratica gli organi di controllo (compresa la magistratura) dovrebbero verificare l'attuazione del piano stesso piuttosto che la norma astratta e sanzionare, se necessario, le inadempienze.

Questo meccanismo, che ho tentato di riassumere in poche righe, è stato utilizzato con successo per ridurre l'impatto ambientale delle grandi industrie chimiche della Germania del nord e, più in piccolo, per la messa in sicurezza degli ospedali cittadini dallo Spresal (servizio per la prevenzione e la sicurezza nei luoghi di lavoro) della Asl di Milano, con la partecipazione del Tribunale per i diritti del malato. In queste condizioni la messa in sicurezza acquisterebbe davvero le caratteristiche di una grande opera, che coinvolge un'intera nazione, e non restare confinata nel repertorio delle occasioni di polemica da utilizzare per un minuto in più o in meno di visibilità.

La seconda strada obbligata riguarda il sostanziale miglioramento del patrimonio edilizio. In un paese che ha già 5,6 milioni di alloggi non occupati (di cui 245.000 nella sola città di Roma) l'attenzione di tutti i governi dovrebbe proporsi di ridurre al minimo i progetti di nuova costruzione ed orientare le energie delle imprese verso la riqualificazione urbana e la messa in sicurezza. È una rivoluzione epocale ma prima di bollarla come utopica, conviene ricordare che le "bolle immobiliari" hanno avuto un ruolo fondamentale nell'innesco della grande recessione giapponese e nell'avvio della crisi mondiale in corso. Non si parte da zero: le norme sull'adeguamento antisismico e sulla sicurezza dei fabbricati sono già una buona base normativa e le esperienze di recupero urbano realizzate con successo in Italia e all'estero (sia con intervento pubblico che con capitali privati), ormai, non si contano. In varie città (Barcellona, Torino e Milano) si sono già formate agenzie immobiliari non-profit, animate dalla cittadinanza attiva, che si mettono al centro tra la domanda e l'offerta di abitazioni e uffici, garantendo reddito e certezza nei tempi d'uso a chi dispone degli immobili, e spazio in affitto a prezzi calmierati (circa il 30% inferiore ai valori di mercato) a chi ne ha disperato bisogno (non solo immigrati e soggetti fragili, ma anche studenti, lavoratori precari, giovani famiglie). In un quadro generale di questo tipo, forse, si potrebbe venire a capo anche del problema dell'abusivismo senza condoni generalizzati ma anche senza legalizzare situazioni di pericolo e di danno ambientale.

Alessio Terzi
Presidente nazionale di Cittadinanzattiva

Redazione Online

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