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Editoriali

punto_02_04_09Si legge che, in questi giorni, il Presidente del Consiglio incontrerà i Governatori regionali per concordare l'impostazione del cosiddetto "piano casa".
Il dibattito pubblico che ha preceduto questo annuncio, come purtroppo di consueto, è stato rissoso e poco utile per comprendere quale fosse il vero oggetto del contendere.

Chi ha avuto la pazienza di decifrarne il contenuto, comunque, ha potuto constatare subito che, al di là del nome, non si stava discutendo delle questioni che stanno rendendo drammaticamente dura la vita di milioni di famiglie ad esempio della impossibilità di trovare alloggi dignitosi con affitti che non si mangino metà (se non di più) dello stipendio; oppure del rischio, per chi sta perdendo il lavoro, di perdere anche la casa e tutti i risparmi per la temporanea impossibilità di pagare le rate del mutuo; o, ancora, del fatto che chi lavora e guadagna, ma non è assunto a tempo indeterminato, non può accedere al credito.
L'incontro, se ci sarà, riguarderà invece la possibilità di ampliare le abitazioni mono o bifamilari del 30% senza richiedere la licenza edilizia, ma solo con una dichiarazione giurata di conformità del professionista.
Basterebbe questo per rilevare, ancora una volta, che le priorità della politica sono molto diverse da quelle dei cittadini.
Le famiglie veramente interessate al provvedimento, infatti, sono relativamente poche - secondo le statistiche ville, villini e residenze assimilabili sono circa il 10% di tutte le residenze - ed è probabile che molti proprietari non siano interessati ad ampliare o non dispongano delle risorse necessarie, ma, comunque, in ogni caso già dispongono di un'abitazione.
Inoltre, il modo in cui la questione è stata posta al pubblico aggrava, di molto, la situazione. Si sarebbero potuti affrontare seriamente problemi importanti, da quello di semplificare le procedure senza legittimare un'anarchia (che per altro all'atto pratico esiste già dalle Alpi al canale di Sicilia), a quello di mobilitare risorse utili per sostenere l'edilizia senza causare ulteriori devastazioni, fino a quello di indirizzare le energie di trasformazione anche verso il miglioramento dell'efficienza energetica e della qualità ambientale di territori già compromessi.
Si è invece perpetuata la solita stucchevole rappresentazione. Da una parte il Presidente del Consiglio che pretende di esercitare per decreto poteri che - come sa qualunque costruttore - appartengono da sempre ai Comuni e alle Regioni, e che, accertata l'ovvia impossibilità, se la prende con l'opposizione e con la Costituzione. Dall'altra, quella dell'opposizione appunto, si denuncia la volontà di eversione degli assetti istituzionali e poi si grida alla cementificazione, dimenticando che gli interventi previsti non consumerebbero nuovo territorio.
Gli organi di informazione, come sempre, contribuiscono a enfatizzare i toni e a confondere i problemi, con poche eccezioni. Fra queste, Stefano Boeri, che sul La Stampa del 18 marzo, ha messo in evidenza l'esistenza di un problema estremamente grave e complesso e insieme un insospettato (forse) campo di azione della cittadinanza attiva.
Parlare di casa, dice Boeri, significa fare i conti con la continua crescita del patrimonio edilizio non utilizzato. "A Roma, su 1.715.000 abitazioni, 245 mila - una su sette - sono vuote. A Milano su 1.640. 000 appartamenti, più di 80 mila non sono abitati e quasi 900 mila metri cubi di uffici sono deserti (l'equivalente di 30 grattacieli Pirelli vuoti...). Che una legge .....non si preoccupi di recuperare un patrimonio che da solo......potrebbe dare risposta al disagio abitativo di milioni di italiani è davvero grave. Grave che non ci si interroghi sulle ragioni di questa nostra originale forma di desertificazione urbana...... un fenomeno pervasivo che, se affrontato, potrebbe rispondere ai bisogni di milioni di famiglie, di piccole imprese edili, di professionisti, e così costituire un grande banco di prova per le politiche pubbliche del Paese. Il vuoto nelle città è il riflesso fisico del vuoto che separa le istituzioni pubbliche dalle energie vitali della società civile. E non è un caso che a riempire questo vuoto, attraverso forme di sussidiarietà e di supplenza all'azione pubblica, siano agenzie di «privato sociale»: immobiliari non profit - come quelle nate a Barcellona, a Torino, a Milano - che si mettono in mezzo tra la domanda e l'offerta di abitazioni e uffici, garantendo reddito e certezza nei tempi d'uso a chi dispone degli immobili, e spazio in affitto a prezzi calmierati (circa il 30% inferiore ai valori di mercato) a chi ne ha disperato bisogno (non solo immigrati e soggetti fragili, ma anche studenti, lavoratori precari, giovani famiglie). Ma perché queste esperienze si diffondano, sciogliendo incrostazioni di paura e pigrizia, e alimentando un formidabile mercato di interventi di recupero del nostro stock edilizio, serve con urgenza una legge nazionale che obblighi Regioni e Comuni a offrire fondi di garanzia per gli interventi di immobiliare sociale. E serve una grande politica di recupero creativo dei territori delle città. Che devono smettere di crescere divorando terra agricola e natura, e devono invece occuparsi di sé stesse, rioccupando quei deserti urbani che rappresentano la vera cifra della nostra follia politica". E, aggiungiamo noi, dando credito e forza alle risorse della cittadinanza attiva.


Alessio Terzi
Presidente di Cittadinanzattiva


Per approfondire due articoli scritti da Stefano Boeri

I Colpevoli dei deserti urbani

Edilizia, serve realismo e non appelli

Redazione Online

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