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Forte sulla carta, molto meno nella realtà. Disuguale, perché non garantito ai cittadini sempre, ovunque e allo stesso modo. Formale, perché non orientato a garantire effetti di miglioramento della realtà. Così appare il coinvolgimento dei cittadini da parte delle istituzioni in materia sanitaria. Se è vero, infatti, che numerose sono le norme e le previsioni che lo disciplinano, sia a livello nazionale che regionale e locale, assai meno efficaci risultano invece essere le fasi e le modalità in cui la partecipazione civica viene garantita nelle politiche sanitarie pubbliche. Si rischia così di avere partecipazione, ma senza qualità e senza cambiamenti effettivi; pochi cittadini e poche associazioni inclusi, e molti esclusi; cittadini che hanno voce solo su aspetti marginali dell’azione pubblica; cittadini a cui non si rende conto del processo partecipativo né dei suoi risultati e che sono tagliati fuori dalla messa in pratica delle decisioni che hanno contribuito a prendere.  Il quadro emerge dalla Indagine sulla partecipazione civica in sanità, promossa da Cittadinanzattiva nell’ambito del progetto “Consultazione sulla partecipazione civica in sanità” con il contributo non condizionante di Novartis.

Su ognuno di questi aspetti si interrogheranno i 100 stakeholder della partecipazione riuniti a Roma, il 30 e 31 gennaio, in occasione della Consultazione sulla partecipazione civica in sanità: cittadini, associazioni, istituzioni, esperti e un gruppo di facilitatori lavoreranno  su come qualificare la partecipazione in sanità, per arrivare a una Matrice per la qualità delle pratiche di democrazia partecipativa.

L’indagine si compone di due tipi di analisi: una inerente alle norme sulla partecipazione civica in sanità, sia a livello nazionale che regionale; la seconda riguardante 34 pratiche partecipative attuate in 5 Regioni (Basilicata, Emilia Romagna, Piemonte, Puglia, Toscana) e nella Provincia autonoma di Trento, che hanno visto il coinvolgimento di 24 Enti, fra Assessorati, Asl, Aziende ospedaliere ed IRCSS, e di 41 associazioni civiche.

Normative regionali assai variegate

Dal punto di vista della normativa, il contesto regionale italiano appare molto diversificato: leggi specifiche sulla partecipazione dei cittadini alle politiche pubbliche si trovano in Toscana (dal 2007), Emilia Romagna (2010), Puglia (2017) e Pa di Trento (2014). La Toscana è l’unica regione ad aver approvato nel 2017 una legge specifica sulla partecipazione in campo sanitario; nella maggior parte delle Regioni abbiamo leggi con specifici articoli dedicati al tema della partecipazione in sanità; nel Lazio, Campania, Calabria e Friuli Venezia Giulia manca una normativa sanitaria che parli di partecipazione, mentre figurano indicazioni alla partecipazione solo per l’integrazione sociale o socio-sanitaria. Sempre nel Lazio e in Campania troviamo leggi con riferimenti alla partecipazione per specifici ambiti (quali handicap e salute mentale nel Lazio).

Dodici Regioni hanno previsto un organismo stabile di partecipazione in sanità, ma solo in Emilia Romagna lo stesso è presieduto da un rappresentante dell’associazionismo civico. Sempre l’ER si distingue in positivo perché pubblica sul proprio sito internet tutti gli ordini del giorno delle riunioni dell’organismo, come anche i relativi decreti di nomina.

Solo in dieci regioni la partecipazione è riconosciuta sin dalla fase di definizione dell’agenda, mentre in tutte sembra garantita nella fase di programmazione e in quasi tutte (ad eccezione di Sardegna, Abruzzo, Liguria e Calabria) in fase di controllo e valutazione. Solo sei la garantiscono nella fase decisionale

Le pratiche partecipative: soddisfatti gli Enti ma si può fare di più su coinvolgimento e accountability

Le 34 pratiche partecipative, sulle 85 pervenute, sono state analizzate sotto quattro dimensioni: inclusività, grado di potere, esito della pratica e capacità di render conto.

Con riferimento alla dimensione della inclusività - ossia la capacità delle istituzioni di coinvolgere tutti i cittadini, singoli ed associati, interessati dalla pratica – è evidente che gli Enti coinvolgono soprattutto i soggetti già noti, sulla base della attività svolta e della rilevanza esterna, mentre spesso sono escluse le fasce deboli e le rappresentanze delle comunità locali.

In merito alla dimensione “grado di potere” – ossia capacità delle istituzioni di riconoscere ed attribuire potere ai cittadini su questioni rilevanti – emerge che gli Enti coinvolgono principalmente per consultare (31%), co-progettare (22%), co-gestire (17%); solo nel 38% dei casi le pratiche partecipative risultano vincolanti ai fini del risultato. Inoltre, le indicazioni/raccomandazioni derivanti dalla pratica partecipativa, a detta delle associazioni, sono state prese abbastanza in considerazione dall’Ente nel 61% dei casi, molto nel 20%.

In riferimento all’esito della pratica partecipativa – ossia la capacità delle istituzioni di garantire i risultati della stessa – emergono dati positivi: nel 71% dei casi, il prodotto della pratica viene implementato dall’Ente. Inoltre nell’82% dei casi gli Enti ammettono che la pratica partecipativa ha prodotto un output con un valore aggiunto rispetto a quanto si sarebbe potuto ottenere in assenza di coinvolgimento civico. Inoltre, partecipazione chiama partecipazione: nel 59% dei casi si osserva negli Enti l’innescarsi di un processo virtuoso che partendo dalla pratica partecipativa porta a generare nuove esperienze simili.

Sul tema dell’accountability – ossia la capacità delle istituzioni di rendere conto ai cittadini della pratica partecipativa – si segnalano invece le principali aree di miglioramento dato che l’Accountability è garantita poco e a pochi; nel 38% dei casi non viene prodotto alcun report finale della pratica partecipativa. Laddove realizzato, il contenuto si presenta alquanto diversificato, come pure la sua diffusione che solo in poche occasioni (15% a detta degli Enti, 10% secondo le associazioni) viene estesa all’opinione pubblica in generale.

Ufficio Stampa

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